Antonella Agnoli in un’immagine di Alessandro Cani: è probabilmente la maggiore esperta di biblioteche in Italia

Lei è bibliotecaria. Punto. Sua ragion d’essere e lavoro. Per questo è orgogliosa di definirsi così. Antonella Agnoli, 68 anni, bellunese di nascita, domicilio a Bologna, ha probabilmente la maggiore esperienza di biblioteche in Italia. Ne ha realizzate parecchie (Spinea, Pesaro, Lecce…) è stata consulente per una ventina di Comuni e di biblioteche ha scritto in vari libri: il suo “Le piazze del sapere” è stato tradotto anche in giapponese e ha avuto talmente successo che l’hanno invitata a tenere conferenze in 19 città nipponiche. È talmente compenetrata nei libri che il marito, un economista dell’università di Padova che scrive libri per bambini, l’ha resa protagonista di questi racconti creando il personaggio della bibliotecaria Antonella. Grande ballerina da giovane (“era una ragione di vita”) è persona di stile e ironia: la sua è una cortesia non formale. Ha vinto anche un premio che le è valso una fornitura di cibi di Alce nero, che ha naturalmente devoluto. “È stato l’unico caso in vita mia in cui nel curriculum ho dovuto indicare il peso”, scherza.

A Marano ha partecipato all’assemblea dei colleghi bibliotecari della “Rete” vicentina. Occasione perfetta per ragionare sul futuro della biblioteca di Vicenza.

Come dovrà essere la nuova Bertoliana?

Prima di tutto pensare a cosa sarà la nuova Bertoliana significa ragionare sull’intero sistema delle biblioteche cittadine, quelle di quartiere. Se funzionano bene, com’è cambiato il quartiere, se si sono sviluppati altri servizi, come è mutata la popolazione e così via.

A dire la verità, qualcuna l’hanno anche chiusa e trasformata…

Appunto, a maggior ragione tutto il progetto della nuova Bertoliana deve essere condiviso con la comunità per farlo essere davvero aderente alla città.

La Bertoliana è una biblioteca storica, ha una grande tradizione…

…e un patrimonio straordinario, con collezioni di rilievo. Perciò vale la pena di capire come far diventare questa storia importante della città di Vicenza l’occasione perché i cittadini continuino ad alimentare con le loro storie questa Storia. Certo, in biblioteca ci sono libri, carteggi, donazioni: ma bisogna pensare di arricchirli con le storie di oggi raccontate dai cittadini.

Come?

In Olanda c’è una biblioteca, per esempio, che ha allestito delle cabine nelle quali le persone registrano la loro storia personale. E queste storie possono restare all’interno della banca dati o possono diventare addirittura degli spettacoli teatrali, mettendole in scena.

Vuol dire che non c’è più solo il libro ma esistono oggi altri modi di raccontare e vanno sfruttati?

Certo. In fondo sono quelli che esistevano già un tempo. Pensare che gli archivi convivano con le biblioteche è essenziale. Mi spiego: non serve portare il bambino a fare la piccola ricerca sull’archivio, ma serve proprio ricercare all’interno dell’archivio i pezzi della propria vita.

 Che cosa intende?

Mi spiego. Un’altra strada che si sta percorrendo all’estero è di avere accesso all’anagrafe per risalire agli antenati. I risultati sono assai positivi: le persone impazziscono all’idea di ricostruire il proprio albero genealogico.

I Comuni, però, non sono molto attrezzati a questo scopo.

Nessuno è attrezzato. Gli archivi delle biblioteche possono entrare in questo ragionamento. Per ogni singolo pezzo che abbiamo in biblioteca non dobbiamo preoccuparci solo di conservarlo, preservarlo e ordinarlo bene negli scaffali; dobbiamo capire come può essere utile per alimentare nuovi servizi, per avvicinare pubblici che quei tesori non li hanno mai visti. È come farli diventare una sorta di materiale di lavoro, sì, ma anche di divertimento.

L’incontro dei bibliotecari della “Rete” vicentina a Marano: compatti e… distanziati

 

 

 

 

 

 

 

 

Come ci si può riuscire?

Quando ero a Pesaro ho chiesto alle persone di portarmi i loro vecchi filmini super8 oppure gli home video per riversarli. È un materiale straordinario. Ricordo che avevamo pochi soldi, abbiamo realizzato solo cinque ore, ma abbiamo raggiunto obiettivi molto interessanti. Ho fatto vedere questi filmati in biblioteca e ci sono state persone che per la prima volta hanno visto i trisavoli con le vecchie biciclette dalle ruote grandi ed è stata una grande sorpresa. Sono arrivate famiglie da tutta Italia. Insomma, in biblioteca c’è un lavoro da fare nella parte storica che non è solo far vedere i tesori, ma farli vivere oggi nella nostra storia.

Queste narrazioni a chi servono, o a chi dovrebbero servire?

A tutti. Perché questi archivi si possono far diventare un territorio di lavoro anche per chi non è uno studioso. Si deve abbattere l’idea che le biblioteche siano posti solo per gli studiosi, si possono anche trasformare in qualcosa di più vicino. Gli archivi pubblici stanno svolgendo un importante lavoro in questo senso, per avvicinarsi a una fruizione di tipo differente. Ho l’impressione che lo stiano facendo meno le biblioteche storiche.

Quando parla di archivi cosa intende?

Gli archivi comunali, che spesso stanno sotto lo stesso tetto della biblioteca pubblica spesso non dialogano fra di loro. Ecco perché quando si parla di nuova Bertoliana cercherei di vederla sotto tutti i differenti aspetti, non solo quello dell’edificio nuovo.

Si parla spesso della nuova Bertoliana come di una public library. Lei cosa ne pensa?

Come sarà questo nuovo spazio e come funzionerà sarà il momento finale di una riflessione che dev’essere il più possibile partecipata e collettiva da svolgersi proprio sul tema di cosa ci vogliamo mettere dentro. La nuova biblioteca potrebbe essere, che so, un posto in cui ci sono solo libri nuovi, oppure centrati su di determinati argomenti, magari di attualità… Può essere un laboratorio in cui sperimenti un nuovo modo di presentare le collezioni. Può essere anche un luogo in cui fare, costruire, ragionare, pensare insieme.

Non è un po’ troppo generico?

No, al contrario. Vedrei molto la nuova Bertoliana come un luogo di cui non abbiamo ancora deciso cosa deve essere.

Un modo per lasciarsi aperte più possibilità?

Non solo. Il senso è più ampio. Chiediamoci: vogliamo metterci i bambini? Vogliamo metterci gli adolescenti? Bene, allora la progettiamo insieme a loro. Diventano loro il laboratorio di architettura e progettazione di quel luogo. Io ne ho fatti e sono riusciti benissimo, perché bambini e adolescenti sanno benissimo che cosa vogliono dentro la nuova biblioteca. Sanno come vogliono stare, quali materiali vogliono… Siamo noi che non abbiamo la loro testa.

Dove ha realizzato questi laboratori?

L’ultimo a Lecce per aprire una nuova biblioteca, prima alla biblioteca di Pesaro, che era già aperta ed è stata ristrutturata. Abbiamo chiesto ai bambini come l’avrebbero modificata, che cosa non gli andava bene. A Monopoli abbiamo realizzato questa progettazione assieme ai bambini e ai cittadini. Ma esistono esperienze all’estero dove c’è una tradizione importante in questo senso.

Cosa c’è all’estero che potrebbe avvicinarsi alle esigenze vicentine?

Rovescerei l’assunto. Prima di tutto vorrei capire quali sono le necessità vicentine: cosa volete davvero per quella biblioteca?

 

 

 

 

 

La presidente Visentin ha le idee chiare, meno la città. Che è naturalmente contenta dell’obiettivo in sé ma finora un dibattito sui contenuti è abbastanza mancato. Per questo la Bertoliana ha organizzato dei seminari, che da primavera sono slittati a ottobre, proprio per suscitare questo dibattito e conoscere le esperienze italiane e straniere.

La città, come le altre intendiamoci, probabilmente non ha l’immaginazione di cos’altro potrebbe avere di diverso da quello che è stata finora la Bertoliana. È un difetto comune: se negli Stati Uniti parli di biblioteca pubblica, tutti sanno che è organizzata in un certo modo. Se lo dici da noi, tutti pensano che la biblioteca sia il luogo dello studio, della ricerca e dei libri vecchi. Quindi bisogna costruire, o ricostruire, un immaginario di tipo differente. (Nella foto qui sopra, l’edizione del 1395 della Divina Commedia della Bertoliana)

Facile a dirsi, meno a realizzarsi.

Cominciamo a costruire molti incontri con i cittadini. Certo, Vicenza non è piccolissima, per questo mi appoggerei alle biblioteche di quartiere; che devono essere viste come propaggini della biblioteca centrale e non come realtà autonome. In ognuna di queste si possono tenere assemblee con i cittadini per ragionare su cosa si potrebbe fare di quella biblioteca ma anche, in una visione differente, della biblioteca centrale.

Lei che domande porrebbe?

Una questione fondamentale è questa: volete che sia il salotto buono della città o che diventi qualcosa di diverso? Si potrebbe anche preferire la prima opzione.

Ma il salotto finisce per non comunicare all’esterno…

E perché dovrebbe? Già a entrare in un salotto mi sento a disagio io… Alla Bertoliana sono entrata più di quarant’anni fa: c’era la dottoressa Oliva, persona molto carina e mentalmente più avanti di molti altri. Per me che facevo leggere ai bambini, seduti per terra, libri senza figure non era esattamente il posto in cui mi sentivo a mio agio.

Il problema di coinvolgere i cittadini è un problema molto sentito. La ricerca della stessa Bertoliana fra i suoi utenti ha dato come risultato che l’80% non conosce i suoi social e il 40% non sa che la biblioteca abbia un sito.

Ma perché dovrebbero conoscerli? Già di social siamo pieni. E se io non ho bisogno di un libro, perché devo andare nel sito della Bertoliana? Il problema non è il sito: tu vai a cercare quel posto perché ne hai bisogno.

Questo vuol dire che si deve creare un nuovo bisogno della biblioteca? Cioè la biblioteca deve aprirsi ad altre funzioni?

La verità che siamo noi pieni di stratificazioni e pregiudizi. Se non siamo i primi noi ad avere uno sguardo diverso, una volta si sarebbe detto laterale, se non pensiamo che le cose si possono fare diversamente da come sono sempre state fatte, non gira niente. Insomma, prima di tutto dobbiamo essere noi convinti della trasformazione che vogliamo mettere in atto. Altrimenti è inutile che ci mettiamo a inseguire obiettivi che finiremmo per non raggiungere.

Che consiglio darebbe vista la sua esperienza e il suo sguardo rivolto anche all’estero?

Le esperienze all’estero sono interessanti. Ma andare a vedere questi esempi in Paesi dove esistono tradizioni culturali, politiche, sociali così diverse dalle nostre può servirci fino a un certo punto. Posso farvi vedere un sacco di biblioteche, ma attenzione: queste realizzazioni possono ispirarci ma non sono dei modelli, perché il modello ve lo dovrete costruire voi ritagliato sulla vostra comunità e sui bisogni della vostra città. Potete anche decidere che la comunità di riferimento sia composta di persone di un certo livello culturale e che nelle biblioteche di quartiere ci vadano tutti gli altri. Però deve essere una scelta fatta consapevolmente. Insomma, c’è molto da lavorare.

 

 

 

 

 

 

Qual è l’errore più grosso da evitare?

Pensare di costruire un bell’edificio, con sedie di design e avere la convinzione che si riempia da solo. Quindi non bisogna scegliere gli architetti perché hanno già realizzato una bella biblioteca, ma bisogna scegliere qualcuno che abbia la capacità di dialogare e di mettere insieme linguaggi molto differenti. E non parlo solo di architettura. Lavoro con un grande studio che ha sede a Bologna e se si deve fare una ristrutturazione a Taranto vecchia, loro mettono insieme un antropologo, le associazioni del luogo, un sociologo e così via. Combinano figure e linguaggi molto differenti. Oggi non si può più fare nulla, secondo me, se non mescoli le competenze e sguardi differenti. (Nella foto qui sopra, la sala studio prima del tornado Covid: adesso le postazioni sono distanziate e protette da pannelli).

Come si fa a far leggere di più le persone?

Se avessi la risposta avremmo risolto molti dei problemi di editori e librai. La lettura è un fatto totalmente individuale, nel quale conta molto la famiglia. È provato che se si inizia con i bambini molto piccoli, è più facile che prendano confidenza con il libro e quindi proseguano. Ma poi casca l’asino: il problema spesso non sono i bambini, ma le famiglie. L’Italia è un Paese con una povertà educativa altissima, come spiegano bene i dati di Save the children, cioé molti bambini in un anno non vedono un film, una mostra, non leggono un libro. Sono stati esclusi da questo consumo culturale. Se questa povertà è altissima a Napoli, non è detto che sia così bassa anche nelle Valli del Vicentino. Non è detto, insomma, che il Suv o la Porsche con i vetri fumée garantiscano più cultura ai bambini. Credo che dovremmo lavorare molto di più sulle famiglie e non solo sui bambini. Comunque, se si vuole aumentare la lettura, dovremmo investire di più sulla scuola che dovrebbe tornare ad essere il luogo che abbatte le barriere sociali ed economiche. Scuola e biblioteche, cioè i libri, fanno parte dello stesso sistema.

Per parafrasare Gassman, la Bertoliana ha un grande futuro dietro le spalle?

Dobbiamo costruirlo, questa è la verità. Ci devono credere i politici, prima di tutto. Le racconto la mia esperienza di Pesaro, città in cui ho realizzato la nuova biblioteca. Per ricoprire quell’incarico mi sono licenziata dal pubblico impiego dopo 26 anni: è stato un investimento importante sia mio ma soprattutto dell’amministrazione. Loro hanno messo la nuova biblioteca come macrobiettivo per un anno dell’amministrazione. Tutti i servizi comunali avevano l’input che per quell’anno l’investimento era la biblioteca. Questa è la dimostrazione che tu ci credi davvero.

Gliene sono capitati molti di questi casi?

Onestamente, no.

Sinceramente, ce la farà Vicenza a realizzarla questa nuova biblioteca?

Sì, ma a patto di crederci. E di seguire tre regole che io ripeto sempre quando tengo i miei corsi.

Quali sono?

La prima è “si può fare”, cioè credere che si possa centrare l’obiettivo. Viceversa, la pubblica amministrazione di solito ripete “non si può fare”. Se ripeti come un mantra “si può fare”, magari alla fine non ci riesci, ma il percorso che hai compiuto dimostrerà che hai cercato in tutti i modi di realizzare quell’obiettivo. Se tu parti già dicendo che non si può fare, in realtà non fai nulla per raggiungere l’obiettivo. La seconda regola è: se una cosa non funziona, non è ineluttabile. Un motivo c’è sempre. Dobbiamo cercarlo e correggerlo. Terzo: provare a guardare le cose con una visione esterna, distaccarci, senza esserne fagocitati perché finiremmo per immobilizzarci. Se l’amministrazione pubblica seguisse queste tre regole, sarebbe tutto più facile.