Stephen Hawking, il celebre scienziato inglese, quando tenne una lezione a Padova nel 2006 raccomandò di studiare la Storia all’indietro, perché è molto più efficace e sorprendente. Siamo noi – affermò – che per colpa del secondo principio della termodinamica pensiamo sempre in direzione del futuro, che aumenta il suo disordine, come se la Storia fosse a senso unico. Ma è sbagliato. Chissà se Andrea Pennacchi conosceva questo suggerimento. Comunque, con l’intuito dell’attore geniale, ha compiuto un’operazione simile con il suo spettacolo “Una banda de foresti e selvadeghi: i Venetkens”, allestito dal suo Teatro Boxer per Operaestate, in programma mercoledì 29 alle 21 a Villa Cerchiari, sede della biblioteca di Isola Vicentina.
Perché ha voluto risalire alle origini della storia del Veneto testimoniate dalla stele di Isola?
Perché la storia del Veneto sembra piccola rispetto alla Grande Storia, invece è un frattale: più guardi nel piccolo, più ti accorgi che è replicata la struttura del cosmo. Scopri un’infinità di storie e io ne racconto qualcuna per cercare di riflettere anche sull’attualità.
Quali storie e quale passato?
Andiamo indietro, molto indietro. Tocchiamo il mito dell’origine dei veneti, in fuga con Antenore dalla città di Troia in fiamme. Parlo della migrazione e dell’arrivo in questa terra. Cito anche un passo spurio dell’Iliade.
Nell’Iliade si parla dei veneti? Non mi sembrava…
No infatti, per quello ho detto che è spurio. L’ho inventato io. (Ride).
Sì, le parole mi piacciono moltissimo. Del resto, a proposito di parole, nel Veneto perfino la geografia non è affidabile, nel senso che non è mai neutra: guardi i nomi dei luoghi pullulano di storie. Vede, l’uomo traccia il suo paesaggio con le storie, come gli aborigeni australiani tracciano le loro coordinate attraverso le vie dei canti.
A proposito, il paesaggio nel Veneto sta soffrendo molto. Lo abbiamo rovinato.
Fino a un certo punto della nostra storia non ha sofferto. Poi le cose hanno preso una brutta piega perché l’uomo ha preso una brutta piega. Il fatto è che il paesaggio, da solo, non esiste: senza uomini il paesaggio non esiste. Nel Veneto il paesaggio è stato asservito agli scopi utilitaristici, non è stato più complice e collaborativo come nel passato.
Il paesaggio veneto, quello che Palladio rispecchiava nella sua architettura, racconta la nostra storia, quindi.
Certamente. Ogni paesaggio è un panorama di storie, che si sovrappongono a strati, come il millefoglie: alcune sono piccole, altre profonde, altre ancora arrivano lontano. Queste storie sono in costante mutamento, come i nomi delle strade di una città, come i corsi dei fiume. E se hai fatto bene in vita, alla fine del tuo cammino diventi paesaggio anche tu, un antenato. (Nella foto: la stele di Isola Vicentina, conosciuta come Venetkens, scoperta nel 1992).
Una bella prospettiva. Ma cosa ci dice, oggi, il paesaggio del Veneto?
Basta girare a piedi o in bicicletta e capisci che sei al centro di una rete di sicurezza, che la rete dei canti che hanno tracciato su questa terra gli antenati, dalle memorie dei nonni risalendo sino ai Venetkens di Isola Vicentina. Questa rete dà senso a te, alla tua esistenza. È una rete di comfort circondata dal caos, dal mistero, che va tessuta e ritessuta man mano che cresci: a questo serve popolare un paesaggio di storie: a dare senso a te.
Cosa c’è oggi nel Veneto che merita una riflessione?
C’è da sfatare il mito dei bei tempi andati. Il passato non è migliore del presente. Ci sono, nell’uno e nell’altro, aspetti critici e altri positivi. Secondo me dalla storia passata dobbiamo trarre le forza di recuperare qualcosa che abbiamo perso o dimenticato.
Per esempio?
Un approccio alla vita più gioioso.
Sarà. Ma nel recente passato eravamo più poveri. Condanniamo il benessere?
No, io non faccio un elogio della povertà. Ma condanno l’avidità che fa disprezzare tutto il resto.
Si parla molto di identità veneta. Come la vede lei?
L’identità, se la prendi dal lato sbagliato, vuol dire mettere muretti a qualcosa che non deve avere confini. Perché diventa un mascherone funebre quando invece l’identità è flusso, movimento; c’è dentro un pezzo di antico, che va mantenuto, assieme a qualcosa di nuovo che va accolto. L’identità di un popolo non è mai statica: prendi la polenta, che a noi sembra una tradizione immutabile, in realtà è un’invenzione importata dall’America. Il fatto è che ogni tanto arriva qualcuno che dice: Io so cos’è l’identità, è questo, questo e quest’altro. Ma sono destinati a essere spazzati via dalla Storia.
Però questi profeti dell’identità hanno molto successo: perché secondo lei?
Perché offrono una casa sicura e certezze in un momento di caos totale e sbandamento. No, non esiste un tempo in cui tornare, un’Arcadia ideale da agognare. Ogni territorio ha una forte identità perché ha tante storie.
Come è organizzato lo spettacolo?
Sono sul palco assieme a Giorgio Gobbo e raccontiamo un po’ di queste storie. Il nostro ormai è un sodalizio ben navigato. Giorgio capisce che ci sono aspetti che le parole non riescono a raccontare e supplisce con la musica.
Come sta il Pojana?
Bene. Sta lavorando nel suo capannone. Vorrei dire che saluta tutti, ma non posso. Lui bestemmia, non saluta.
Sì, abbiamo terminato di girare un anno fa. Si tratta di quattro gialli ambientati a Genova, con protagonista Petra Delicato, ispettrice della Mobile che dall’archivio si trova catapultata in prima linea a risolvere casi di omicidio e violenza. Io sono il vice ispettore Antonio Monte, che nei romanzi è Firmin Garzon, poliziotto vecchio stampo, vicino alla pensione, ricco di umanità e di grandi intuizioni.
(Nella foto accanto, Pennacchi, Alicia Gimenez Bartlett e Paola Cortellesi)