Era il migliore di noi, il più completo ed efficace: dagli anni Settanta ai Novanta raccontò l’altra faccia di Vicenza
Gianfranco Filippini è stato un giornalista di alto livello che ha vissuto da cronista attento e curioso quasi 25 anni di vita cittadina, dall’inizio degli anni Settanta sino ai primi anni Novanta. Filippini, che avrebbe compiuto 70 anni il prossimo 17 luglio, è mancato a Negrar dove risiedeva da 26 anni e dove ha combattuto la sua ultima battaglia contro una rara forma tumorale. Lascia la moglie Giuliana e i figli Francesco e Alberto. Aveva lasciato il giornalismo, ma non l’ordine né la previdenza che continuava a pagare perché voleva quella pensione e soprattutto perché il primo amore non si scorda mai davvero.
Era il migliore della nostra generazione: per l’interpretazione limpida della professione, che l’ha portato a moltissimi scontri, cercati e non subiti; per la versatilità, in quando era capace di scrivere con competenza di cronaca giudiziaria, di cultura e di sport; per gli interessi culturali (amava fra gli altri Arthur Schnitlzer) per la precisione e la brillantezza di scrittura. E per la velocità, che nel nostro lavoro è una caratteristica non secondaria. Andavamo assieme a fare il “giro di nera”, io alle prime armi e lui redattore esperto: quando alle cinque del pomeriggio avevamo completato la raccolta di notizie, io dovevo iniziare a scrivere, lui aveva già finito. Sfruttava ogni momento e ogni pausa, sedendosi anche alla scrivania rimasta libera alla Squadra Mobile e pestando sui tasti della macchina per scrivere. Alle cinque e mezza arrivava in redazione e consegnava con sufficienza un pacco di notizie già titolate al capocronista Franco Candiollo, con un: “Toh, ciàpa qua per oggi”. E se ne andava. Magari al ristorante “Il Tinello” di cui aveva acquistato una quota, così come aveva una partecipazione in un’azienda di lampadari. Era versatile anche negli interessi.
Aveva un carattere forte, spesso era ruvido, perfino talebano nelle sue convinzioni. Ma aveva anche un senso della notizia di prim’ordine e un senso dell’ironia altrettanto spiccato. Aveva iniziato a lavorare a 19 anni al Gazzettino di Vicenza, con Nevio Furegon (per il quale aveva una venerazione), Silvano Mazzolin (che lo farà assumere al Giornale di Vicenza nel 1975 grazie a Giuseppe Brugnoli, me lo raccontò lo stesso Brugnoli), Antonio Pretto e Vincenzo Carenza, amicissimo per una vita fino a una rottura professionale (un “buco” che doveva restare riservato) che diventò anche insanabile frattura personale.
Gianfranco era un irrequieto che dal suo lavoro cercava sempre qualcosa di più. Da ragazzo voleva diventare magistrato, perché aveva sete di giustizia. Confessò di essere diventato giornalista per arrivare allo stesso obiettivo e anche perché la facoltà di giurisprudenza di Padova, come raccontò, “era piena di fascisti e due miei professori erano indagati per le bombe nere”. Così lasciò l’università e a vent’anni iniziò a scrivere nella Vicenza tormentata degli anni Settanta, quella della rapina a ponte San Paolo, degli orafi che conquistavano spazio nel mondo e del modello economico da miracolo.
Non contento del lavoro al “Giornale di Vicenza”, all’inizio degli anni Ottanta diventò assieme a Massimo Manduzio il regista occulto del settimanale “Vicenza oggi”, che voleva portare vivacità in città. Quindi nel 1987 approdò a “Nuova Vicenza”, fondata da Franco Mognon, prima mettendosi in aspettativa dal quotidiano e poi licenziandosi definitivamente. Inseguiva il suo sogno di un’informazione libera, autorevole, slegata dai condizionamenti.
Con la sua direzione, “Nuova Vicenza” svolse un ruolo importante nell’informazione degli anni Ottanta e rappresentò una concorrenza fastidiosa al Giornale di Vicenza. Non tanto per il numero di copie, ma proprio per l’obiettivo di superare paludamenti e auto-censure. Basti pensare che arrivò a vendere anche novemila copie alla settimana. Temi come quelli della mafia a Vicenza, il caso Poidimani, il veggente Baron a Schio diventarono suoi cavalli di battaglia. E anche battaglie personali di Gianfranco.
Oltre che con i coetanei come Alberto Franco, allevò una generazione di giornalisti: con lui lavoravano Anna Madron, Paolo Possamai, Antonio Franzina, Mauro Carrer, Diego Illetterati, Luca Illetterati, Alessandro Mognon e collaboratori illustri come Illvo Diamanti ed Emilio Franzina. In seguito a “Nuova Vicenza” quotidiano lavorarono con lui Ilaria Danieli, Paola Sperotto, Alessandro Marzo Magno, Giovanni Chiades. Il fatto è che l’esperimento del settimanale riuscì talmente bene che “Nuova Vicenza” da settimanale tentò l’avventura del quotidiano, ma ebbe vita breve. Seguì un altro esperimento, quello del settimanale “Duemila” ma lui se n’era già andato e il timone era già stato preso da Paolo Coltro. Nel frattempo Gianfranco s’era trasferito a Verona, dove lavorò alla “Cronaca” ritrovando Giuseppe Brugnoli (e litigandoci di nuovo) per poi cambiare completamente settore.
S’era dedicato all’antiquariato, ma la sua vita precedente gli era rimasta nelle ossa. Così aveva scritto un libro di memorie, che purtroppo non ha avuto il tempo e forse neanche la voglia di pubblicare. L’avevo letto e gli avevo suggerito un titolo, preso in prestito da De André, che secondo me rifletteva molto la sua vita: “In direzione ostinata e contraria”. (Febbraio 2022)