Era il 2010, la cinquina era fortissima. Fu anche l’anno del clamoroso litigio in pubblico fra Pennacchi e Gad Lerner su Mussolini “che aveva fatto cose buone”
Michela Murgia era una donna straordinaria per profondità di pensiero e libertà d’animo. Potete anche invertire i concetti, va bene lo stesso perché quando sei di fronte a una persona di valore e di valori la descrizione è sempre corretta in quanto le qualità aumentano geometricamente. Era diretta, generosa, magari impegnativa ma anche molto vera. Un dolore averla persa.
Desidero aggiungere due sole impressioni personali al molto di buono che è stato detto su di lei in questi giorni.
L’ho conosciuta nel 2010 a proposito del Premio Campiello: ho presentato i cinque autori finalisti a Castelfranco e ad Asiago, durante il tour estivo che li porta in giro per l’Italia. Era un cinquina di alto livello: Laura Pariani era la terza volta che arrivava in finale, e ne aggiungerà un’altra senza mai vincere, recordo assoluto nella storia del premio. Gianrico Carofiglio era già Carofiglio perché aveva pubblicato i libri dell’avvocato Guerrieri, ma non era ancora televisivo come oggi.
Antonio Pennacchi, con il suo Canale Mussolini, una saga sulla bonifica Pontina, aveva colpito molto l’interesse mediatico, che ha sempre bisogno di personaggi (e talvolta li eleva al rango di eroi per un giorno) per il fatto di essere fasciocomunista come si definiva e per la sua storia di operaio in fonderia che leggeva Dante nelle pause e ne discuteva con i colleghi. Gad Lerner era il più noto del gruppo per via dei suoi programmi televisivi; presentava un libro affascinante e denso sulla sua storia familiare, Scintille, e non ne lasciava passare una. Polemizzò anche con Bruno Vespa che, alla finale, chiese esplicitamente alla regia “di inquadrare il generoso decolleté di Silva Avallone”, vincitrice del premio opera prima, trovando l’uscita poco elegante se non addirittura offensiva. Aveva ragione, comunque.
La giovane Michela Murgia, che aveva 38 anni, restava sottovento con il suo Accabadora, curiosa vicenda di oscure tradizioni che mescola morte e vita: l’eutanasia pietosa praticata con il cuscino da questa donna che ereditava il compito e la realtà dei figli d’anima, che poi si scoprì esistevano in tutta Italia e non solo in Sardegna. Tant’è vero che l’abruzzese Donatella Di Pietrantonio con un personaggio simile vinse pure lei il Campiello nel 2017.
Michela fu indiretta e spaventata protagonista dello scontro fra Pennacchi e Lerner a Castelfranco, ospiti di Giancarlo Saran assessore. Ne ha parlato di recente in una lunga intervista trasmessa su Radio Rai. Ero io che conducevo l’incontro. Pennacchi, uomo ruvido di carattere, partendo dalla bonifica pontina sostenva qualcosa di simile al celebre aforisma “Mussolini ha fatto anche cose buone e che andava ringraziato”. Gad Lerner, pacato ma determinato, gli contestò l’affermazione ricordando che era lo stesso personaggio che aveva voluto e firmato le leggi razziali per le quali moltissimi avevano sofferto profondamente, trovando spesso anche la morte. Ne nacque un battibecco che salì di tono: cercai di calmare gli animi, ma Pennacchi infuriato gettò lontano il suo bastone. I due uscirono senza salutarsi.
La giovane Michela mi passò vicino e, nonostante fosse agitata perché è raro che una finale letteraria possa trasformarsi in un ring, si complimentò con me perché avevo tenuto sotto controllo la situazione: almeno non erano arrivati alle mani, perché l’atmosfera era quella.
Il secondo atto con Michela protagonista è di qualche settimana dopo, questa volta al teatro Millepini ad Asiago sempre con la cinquina degli scrittori del Campiello. Avevamo riparato al chiuso perché pioveva e la presentazione degli scrittori in piazza, come programmato, era impossibile. Carofiglio ricordava i suoi trascorsi giovanili di campione di karate in trasferta dalla Puglia a Vicenza, gli altri erano incuriositi dalla passeggiata nelle trincee della Grande Guerra prevista per il giorno dopo, domenica.
Michela attirava l’attenzione, un po’ per il racconto della sua strana vita e un po’ per quella parlata gutturale ma anche affettuosa tipica dei sardi. Le domandai pubblicamente se fosse parente di Tiberio Murgia, il celebre Ferribbotte del film I soliti ignoti. Non a caso. Il paese di Michela, Cabras, si trova a dieci chilometri da Oristano, la città di Tiberio. Nonostante avesse sempre impersonificato il siciliano geloso, Murgia era sardo. Michela rispose che no, non era suo parente, lo conosceva ma si trattava solo di omonimia.
Poi iniziò a raccontare la sua vita, del suo giovane compagno, degli studi di teologia, di come avesse scritto il romanzo e dei suoi tanti lavori precari. L’aspetto letterario e quello lavorativo s’intersecavano: lei raccontò del suo impiego di portiere di notte e del bastone che nascondeva in un cassetto della conciergerie per ogni evenienza.
Scriveva, appunto, anche durante la notte quando doveva restare di guardia all’albergo e le faceva compagnia solo il silenzio. Come tutti gli apprendisti scrittori, spediva in giro i manoscritti dei suoi lavori, sperando nella fortuna. Una volta vinse un concorso in Piemonte – raccontò – e fu molto contenta di visitare Bardonecchia perché il premio era appunto un soggiorno nella celebre località montana. E poteva toccare con mano la neve che a Cabras era semisconosciuta.
Le avevo raccontato che ero nato a Cagliari, circostanza che per i sardi in continente è sempre un abbraccio psicologico, ma presentando il suo romanzo incespicai sull’accento di santa Bonarìa, pronunciato come fosse una parola piana; in realtà è sdrucciola, l’accento va sulla terz’ultima. Lei mi corresse in pubblico: “Ma come, sbagli il nome della tua patrona? Si dice Bonària“. La santa è la patrona di Cagliari. Me la cavai spiegando che ero rimasto in Sardegna appena due anni appena nato e non avevo appreso la lingua.
L’aspetto più curioso dell’incontro riguarda la mia profezia sul vincitore, anzi sulla vincitrice. Leggendo il suo libro, avevo capito che aveva tutte le caratteristiche per vincere. Ho imparato a conoscere la giuria dei trecento lettori, che ha caratteristiche abbastanza precise e, devo dire, sbaglio raramente. I giurati popolari cercano una storia, non amano i saggi, i gialli, le biografie, tantomeno il romanzo psicologico come Milano è una selva oscura della Pariani, dove il protagonista si chiama Dante e si aggira per Milano. I lettori popolari che votano cercano libri semplici, per così dire, meglio se personaggio e trama recupera un po’ della storia popolare dimenticata.
Al mio vaticinio lei rispose alzando le spalle: “Macchè, tutti puntano su Pennacchi”. In effetti, per la ragione di cui sopra gli addetti ai lavori non aspettavano altro. Però il suo libro ricreava la Storia, quella con la S maiuscola, non raccontava una storia, ancorché minuscola ma personale e che quindi potenzialmente coinvolgeva tutti. Promisi a Michela: “Senti, sono così sicuro che vinci che scommetto una bottiglia di vino. Se ho ragione, la porto io a te invece del contrario”. Michela Murgia non vinse il Campiello, lo stravinse: 119 voti per lei, 73 per Pennacchi che appunto arrivò secondo. Segno che i miei criteri di valutazione sono giusti. E poi Carofiglio, Lerner e Pariani.
Ci rivedemmo a ottobre a Schio, dove l’allora presidente della Confindustria locale, Laura Dalla Vecchia, aveva l’intelligente abitudine di invitare il vincitore del Campiello per un incontro sul suo libro. Di fronte a tutti, consegnai la bottiglia di vino spiegandone il motivo pubblicamente. Lei confermò, ringraziò e sorrise.
Antonio Di Lorenzo